sabato 29 maggio 2010

Nepotismo d'oltreoceano

Nepotismo o il segnale che ancora credono nel giornale di famiglia? Il figlio dell'editore del New York Times è stato promosso capo sede dopo appena un anno di gavetta e la nomina ha scatenato negli Usa un dibattito e polemiche. Figlio di papà o figlio d'arte destinato tra non moltissimo a ereditare il timone del più influente giornale del mondo da oltre un secolo nelle mani della sua famiglia? Il 29enne reporter A.G. Sulzberger è stato promosso capo dell'ufficio del Times a Kansas City, non la più prestigiosa delle sedi del giornale negli Stati Uniti, ma pur sempre una sede importante, dopo appena un anno di esperienza da cronista al desk metropolitano del giornale, e di altri quattro anni in giornali di provincia. La notizia della promozione è stata data con un pizzico di invidia dalla Columbia Journalism Review, la rivista della scuola di giornalismo della Columbia University dove si formano le nuove leve del giornalismo americano. "Figlio dell'editore diventa capo-ufficio? Dopo solo un anno??", ha 'tweetato' uno dei redattori del giornale. "Ovvio che la nomina ha più a che fare con chi è suo padre, il presidente del Board del New York Times Arthur Sulzberger Jr, che con le sue doti giornalistiche", ha commentato sulla rivista online Slate l'inviato Jack Shafer, che tuttavia ha letto nella promozione del figlio di Sulzberger un segnale positivo: "E' il segnale che la famiglia crede ancora nel giornale ed é un bene che i Sulzberger continuino a farlo". I Sulzberger controllano il New York Times dal 1896 e che un Sulzberger di quinta generazione sia disposto a trasferirsi a Kansas City piuttosto che vivere di rendita delle azioni del gruppo è, secondo Shafer, un ottimo segno. Il paragone più ovvio è con i membri della famiglia Bancroft, che controllavano il Wall Street Journal, sulle cui divisioni e disinteresse per il futuro dei media ha fatto leva Rupert Murdoch quando nel 2007 ha inglobato nel suo impero la 'bibbia' dell'alta finanza. Due anni di gavetta all'Oregonian, un giornale di Portland, altri due al Providente Journal del Rhode Island, in un anno di lavoro in cronaca il giovane Sulzberger si è fatto amare al New York Times nonostante il sangue amaro che i tagli imposti da suo padre avevano fatto venire alla redazione. A.G. (si chiama Arthur come il padre) ha conquistato spesso la prima pagina dopo aver cominciato a lavorare nel quartier generale disegnato da Renzo Piano tra la curiosità dei colleghi il 23 febbraio: "E' uno coi piedi per terra, modesto, ansioso di imparare", lo aveva giudicato uno dei capi a City Room, il blog della cronaca metropolitana.

mercoledì 19 maggio 2010

Qualcosa si muove?

E' passato un mesetto dal lancio della "campagna di moralizzazione", da parte dell'Ordine dei giornalisti, sui compensi che diverse testate danno ai giornalisti. Trenta giorni dopo, incontro all'Ordine.

Il resoconto lo potete trovare qui. Questa cosa del bollino blu mi pare una cazzata. Quindi alla domanda posta nel titolo risponderei di no. Ma almeno si inizia a parlarne un po'.
Qua invece il documento con i compensi testata per testata e regione per regione, a seconda degli esempi raccolti. Ma è un documento molto parziale, che riguarda solamente alcune testate. Molte ne mancano all'appello, e probabilmente sono quelle su cui bisognerebbe concentrare l'attenzione. Ma c'è già qualche dato interessante. Il Resto del Carlino paga meno i pezzi scritti dopo il raggiungimento della soglia dei 70 pezzi (guarda caso, quelli che servono ad ottenere il tesserino da pubblicista). La Repubblica ha tagliato il compenso da 50 a 30 euro a pezzo in un anno. Liberal, dopo un anno in cui non ha pagato, a marzo ha annunciato che pagherà a 365 giorni (!). Secondo la tabella c'è anche chi non ha visto un euro da Il Manifesto, che si becca ogni anno i suoi bei cinque milioni di contributi per l'editoria. Libero paga dai 15 euro in su, anche se è un'apertura. La Nuova Sardegna e la Voce della Romagna pagano 2,58 euro a pezzo!

Sul sito della FNSI, invece, una nota un po' polemica nei confronti della Meloni e dell'Ordine, visto che le elezioni per il rinnovo sono ormai prossime.
Fate i bravi, non litigate e fatevi sentire.

domenica 16 maggio 2010

Giornalismo e precariato

Serena ha 35 anni, una laurea, due specializzazioni e un master. In dieci anni ha firmato migliaia di articoli e dice: "Mai ricevuta retribuzione da una delle tante testate napoletane per le quali ho collaborato. Quando chiedevo un minimo di rispetto, mi rispondevano: 'Tu sei piccerella ancora (a 30 anni?)...ringrazia a Dio che stai in pagina, se non ti sta bene c’è la fila di chi si accontenta di nulla". Mena invece di anni ne ha 37: "Il mio guaio è quello di essere giornalista professionista. Me lo spiegò il mio ex direttore. Quella mattina m’ero stancata di elemosinare la cospicua somma di 300 euro che il giornale sborsava, se andava bene, ogni tre mesi. Così decisi di spedire il mio curriculum a un grande quotidiano locale, col quale ora collaboro da cinque mesi a queste condizioni: apertura della partita Iva, 25 euro lordi ad articolo, retribuzione ogni due mesi ma per un massimo di 15 articoli al mese (perché c’è sempre il guaio che sono professionista). Finora ho guadagnato duecento euro al mese, con la speranza che le cose cambino. Difficile, però, se in questo mestiere si andrà avanti sempre per cooptazione".

Pasquale invece è più giovane, ha iniziato a fare il cronista quattro anni fa. "Ho imparato tutto sul campo, nessuno mi ha insegnato o consigliato nulla. Ho seguito tutta la faida di camorra della periferia Nord di Napoli, pagandomi da solo telefono e benzina. Poi il mio giornale è fallito e addio tesserino e riconoscimento del lavoro svolto". Risultato? "Non ho mai avuto un euro né un contratto, e nemmeno un pezzo di carta che attesti chi sono, che lavoro faccio e per chi. Quando vado su una notizia di nera, i poliziotti mi chiedono il tesserino e siccome non ce l’ho mi allontanano". Olimpia, 28 anni, ha investito i risparmi familiari in una scuola di giornalismo: "La ritenevo l’unica chance per il mio futuro. Due anni di sveglie alle 6 e ritorno a casa alle 19. Oggi continuo a collaborare gratis con lo stesso free press che mi ha fatto diventare pubblicista. L’unica mia entrata è un progetto in una scuola di confine, nel frattempo cerco concorsi per uffici stampa e invio raccomandate ovunque. Se guardo indietro i miei occhi si riempiono di lacrime perché penso di aver sbagliato tutto".

Serena, Mena, Pasquale e Olimpia sono nomi di fantasia. Ma le loro storie, purtroppo, sono vere. Le ha raccolte un gruppo di giovani e intraprendenti cronisti più o meno contrattualizzati, riuniti nella sigla Coordinamento dei giornalisti precari della Campania, e le ha allegate a un dossier sul precariato dell’informazione campana e sulle truffe dei corsi-fantasma che ti promettono di diventare "giornalista in un giorno" che sarà presentato domani alle 10.30 presso la libreria Ubik. Il Coordinamento ha un logo: la Mehari di Giancarlo Siani, il precario che tutti i giornalisti dovrebbero tenere a mente.

Gli autori dell’indagine non sono organici al sindacato e in questi mesi si sono riuniti dove capitava, persino nelle catacombe del rione Sanità. Hanno elaborato le statistiche attraverso questionari inviati per email e trattati con la garanzia dell’anonimato. Ne è venuto fuori un dossier che dipinge un quadro coerente a una Napoli capitale indiscussa della disoccupazione e della finta formazione, in cui dominano sfruttamento, illegalità e raccomandazioni, anche all’interno di aziende editoriali e televisive che godono di milioni di euro di contributi pubblici. Secondo l’inchiesta, il 13% dei giornalisti precari locali – abusivi, freelance, collaboratori, stagisti, tutti comunque impegnati sul campo dalle 8 alle 12 ore al giorno - non guadagna neanche un euro e lavora gratis perché spera un giorno di essere assunto, o per conquistare il mitico 'tesserino', in barba a una legge che imporrebbe di essere retribuiti per potersi iscrivere all’Ordine.

Un altro 23% è privo di redditi, ma perché completamente disoccupato. Il 37% si colloca nel range da 0 a 500 euro mensili. Il 17% dice di guadagnare tra i 500 e i 1000 euro. Solo un 10% di fortunati supera la soglia dei 1000 euro. E il 94% non è iscritto al sindacato. "Circostanza – afferma Ciro Pellegrino, animatore del Coordinamento - che ci ha fatto porre una domanda scomoda: ma forse il sindacato non fa abbastanza per questi precari? Ora stiamo concludendo uno studio-inchiesta sulla formazione-truffa: per mesi abbiamo contattato corsi di giornalismo che "vendono" letteralmente (con costi che vanno dai 300 ai 3mila euro) il percorso per diventare giornalista pubblicista. Finisce che devi comprarti il tesserino. E’ il mondo capovolto: bisogna pagare per trovare notizie. Siamo l'unica categoria che si vede rinnegati due articoli della Costituzione: il 1 sul diritto al lavoro, il 21 sul diritto ad una libera stampa: in questo contesto, non possono nascere dei giornalisti con la schiena diritta".

Da il Fatto Quotidiano del 13 maggio
Gruppo Facebook

Sportività

Sono contentissimo perchè questo è uno scudetto contro tutti». È felicissimo il ministro della difesa Ignazio La Russa, tifoso interista, interpellato dall'ANSA, pochi minuti dopo il fischio finale. «Sono qui a casa con i miei figli, e gli amici dei miei figli - ha detto - abbiamo già messo le bandiere fuori dalle finestre, quella nerazzurra, accanto al tricolore». «Vergogna al Siena però - ha poi aggiunto - ha giocato per la Roma». «Una squadra retrocessa cerca di vincere per un punto in più - ha detto - ma il Siena ha giocato per far vincere la Roma».

E poi dicono che la classe politica non rispecchia il Paese...

martedì 11 maggio 2010

Mas que una ciudad

Dunque, Barcellona. Barcellona m'è sembrata una Napoli riuscita bene. Ovvio, la cornice in cui si incastra Napoli è indiscutibilmente superiore, baciata dal dono di un golfo meraviglioso su cui si staglia il Vesuvio. Il panorama del parco del Virgiliano umilia nettamente quello del Montjuic (a proposito, sul lato destro del cannone che affaccia sul porto è possibile leggere un grandioso "Pisa merda"), che sovrasta sì la città, ma mostra il porto, l'aeroporto in lontananza, e un lungomare comunque non indimenticabile.
Ma Barcellona vince nei servizi, nella vivibilità, nel saper migliorare. Il barrio gotico ricorda i quartieri popolari napoletani, ma le strade sono più illuminate e non ti sembra di stare in un ghetto. Sensazione che fatichi a provare anche nel Raval. E che dire di el Born? Ho letto che dieci anni fa nessuno ci metteva piede, ora è un quartiere tranquillissimo, con piacevoli negozi. Gli spagnoli mi sembrano specialisti in riqualificazione: nel bel mezzo del Raval hanno trasformato un ex ospedale in conservatorio musicale e biblioteca, con un chiostro meraviglioso; l'università Pompeu Fabra è un gioiellino, con un ex deposito delle acque trasformato in aula studio.
Delle differenze dei servizi è meglio non iniziare proprio a parlarne. La rete metropolitana di Barcellona è clamorosa per comodità e puntualità. Certo, sfrutta una maggiore estensione pianeggiante rispetto a Napoli, arrampicata sulle sue colline. Ma vedere metropolitane passare ogni tre minuti anziché ogni otto (se va bene) mi ha fatto piangere il cuore.
E' anche vero che ci troviamo in una delle zone più ricche della Spagna, quella Catalogna i cui sentimenti localistici, secondo gli amici di Annalisa che vivono là da ormai due anni, son ridotti ad essere pensieri esclusivi per catalani, senza la possibilità di apertura per stranieri desiderosi di comprendere e collaborare alla causa. Così come sembra che l'ossessione dei locali per l'FC Barcelona spinga i non catalani a un discreto sentimento di repulsione.
Zona ricca, dicevamo, ma al tempo stesso la crisi sembra sentirsi. Il crollo dell'economia spagnola è stato rapido quanto la sua ascesa, in seguito allo scoppio della bolla immobiliare su cui si era poggiata questa crescita. Poca (rispetto agli standard) gente per strada, ristoranti della Barceloneta clamorosamente vuoti.
Tanti giovani, per fortuna, per una città che sfrutta al meglio le sue caratteristiche per diventare un luogo di attrazione per i ragazzi: turisti, erasmus, persone che si sono trasferite là. Locali e divertimenti per ogni tipo, dalla bettola dell'Ovella negra alle chupiterie alle discoteche che purtroppo attirano parecchia monnezza. Quello che Napoli potrebbe essere, se la metropolitana non chiudesse alle 23, se ci fossero autobus notturni... certo, per ottenere questi risultati gli spagnoli hanno dovuto chiudere più di un occhio. I mossos d'esquadra, la polizia speciale catalana che si occupa dell'ordine pubblico, hanno sì facilitato il risorgimento di alcune zone della città, ma non sono altro che dei picchiatori fascisti, che in vari casi se la pigliano pure col poveretto sbagliato. Gente che prende il manganello pure per scendere dalla macchina nel traffico causato dal ritiro della spazzatura in un vicoletto del barrio gotico.
Un consiglio. Se volete andare (e andateci) al Parc Guell (ma quanto deve a Gaudì questa città?), prendete la metro fino a Vallcarca, arrampicatevi sulla collina grazie alle comode scale mobili a vostra disposizione, e iniziate da là la discesa nel parco. All'uscita, fatevi un giretto per il quartiere di Gracia (che in realtà fino alla fine dell'800 era una città indipendente), le sue strade alberate e le sue piazzette.
Solita parentesi sul cibo. Le tapas generalmente son buone, pensavo non saziassero ma alla fine puoi riempirti, anche se devi spendere parecchio per farlo. Solo che non amo mangiare appoggiato a un bancone tra la gente che spinge. Faccio un'eccezione per la champagneria della Barceloneta, un posto metafisico. Un bel bocadillo col xoriço (o chorizo, salsiccia un po' piccante) e un bicchiere di cava, lo champagne spagnolo. E ti senti felice.
Poi ovviamente paella e sangria, e che ne parliamo a fare. Ma quello che per me è il top è il jamon, il prosciutto crudo. Memore di averlo assaggiato parecchi anni fa, abbiamo comprato 100 grammi di pata negra (invecchiato di 4 anni, 160 euro al chilo!) nel meraviglioso mercato della Boqueria. Divino.

lunedì 10 maggio 2010

Marina

Ho approfittato della vacanza a Barcellona per leggere finalmente "Marina" di Carlos Ruiz Zafón. A dire il vero l'ho letto in buona parte sul volo di ritorno, ma fa lo stesso.
Ecco, da questo vorrei partire, perché arrivato al (mio) terzo libro di Zafón, per quanto l'ispirazione della vacanza catalana fosse importante, credo che "cambiare un po' aria" possa fare bene alla fantasia dell'autore. Marina, infatti, si incastra nel filo conduttore dei due racconti precedenti che avevo letto (L'ombra del vento e Il gioco dell'angelo, le cui storie son comunque collegate). Gli elementi sono gli stessi: una storia che punta molto sulle atmosfere misteriose, con lo sfondo di una Barcellona cupa e intrigante.
Potremmo quindi parlare di ripetitività, se non fosse che Marina è stato scritto prima dei due libri sopra citati. Se da un lato Zafón con il suo stile semplice e avvolgente (basta farsi un giro su internet per vedere quanto piaccia) riesce sempre a coinvolgere il lettore e a tenere alta l'attenzione e il coinvolgimento, creando una splendida storia di amicizia tra due adolescenti, dall'altro la cupissima parte horror-fantasy non convince per nulla. Devo essere onesto? Senza mezzi termini e senza spoilerare, m'è parsa proprio una cazzata. Dai, i proiettili d'argento, ma porca troia, l'hai scritto nel 1999, anche allora era uno degli stereotipi più abusati di sempre.

lunedì 3 maggio 2010

Evento raro

Un altro segno che il 2012 si sta avvicinando. Sabato sono stato tre ore a leggere, al sole, senza alcun desiderio di migrare verso l'ombra.
Mi sono persino scottato il naso, credo non succedesse dal 1996.

domenica 2 maggio 2010

Fan-omenologie

E' curioso, l'ultimo libro di Nick Hornby, "Tutta un'altra musica", riadattamento - all'italiana, abbastanza osceno - del vero titolo, ossia "Juliet, naked". Ancora una volta, la musica riveste un ruolo importante nello svolgimento della scena. Duncan è un "die hard" fan di Tucker Crowe, un cantautore americano misteriosamente sparito dalle scene proprio quando aveva raggiunto il successo con "Juliet", ritenuto il suo capolavoro. Vive in una noiosa cittadina inglese sul mare con Annie, che subisce la passione del compagno per Crowe, tanto da partecipare con lui a viaggi/pellegrinaggi sui luoghi della vita del cantautore. Un giorno a casa di Duncan arriva una versione inedita di "Juliet", Annie la ascolta per prima e da lì le cose inizieranno a cambiare...

Se la storia in sé può non rivelarsi originalissima, a rendere piacevole la lettura del libro sono due elementi. Il primo è la solita, scorrevole, scrittura di Hornby. La seconda è a mio avviso la caratterizzazione del personaggio di Duncan, probabilmente il più riuscito e reale. Chi ha frequentato, qualche volta nella vita, forum dedicati ad artisti e musicisti, rivedrà sicuramente in lui qualche nick conosciuto. La condivisione di una passione, o forse di una mania, via internet con altre persone sconosciute, ma così simili a te. Il desiderio di sentirsi un'autorità nel campo, almeno in un forum, dando anteprime, esprimendo i propri sofferti giudizi in una recensione. Il classico fan che divora la biografia, anzi la vita, del suo mito, rivelandosi alla fine uno studioso, anche maniacale, della sua arte e soprattutto della sua persona. Per poi magari scoprire che, alla prova dei fatti, tutte le sue immutabili certezze, autocostruitesi con anni di ricerche e di confronti online, si sono rivelate delle sostanziali puttanate. Una fenomenologia di un fan da forum.
E allora la lettura di "Juliet, naked" (non riesco a chiamarlo col titolo italiano, scusate) pone implicitamente un quesito. Fino a che punto bisogna analizzare un'opera d'arte e un artista?